Buon anno a tutti e... vi regalo una storia breve! 😘
🎄 Angeli di Natale 🎄
Il mio respiro appannò il vetro.
Ogni volta che andavano via, li osservavo fino a quando svoltavano
l’angolo in fondo alla strada. Tutti e tre, mano nella mano, erano bellissimi; erano
ciò che di più prezioso avevo al mondo.
Strinsi fra i palmi la tazza di latte caldo e rum, il suo tepore era confortante, ne
bevvi un sorso e continuai a guardarli. Parlavano di chissà cosa. La piccolina,
Giada, più chiacchierina di suo fratello Luca, stava dicendo qualcosa al padre,
vedevo Vittorio che annuiva e sorrideva. Li osservai fino a quando non diventarono
una macchiolina piccola piccola, poi i miei occhi saltarono svogliatamente sul
manto nevoso che copriva il vialetto e che non avevo ancora spalato. Sbuffai,
da quando io e mio marito c’eravamo separati, da quattro mesi ormai, toccava a
me ripulire il vialetto. La casa nella quale abitavamo l’avevamo tenuta io e i
bambini, Vittorio aveva preso un appartamentino in fondo alla strada, diceva di
volerci stare vicino, anche se quando vivevamo insieme non faceva che stare lontano
da casa. A prima vista Giada e Luca, i miei pulcini, non sembravano particolarmente
provati dalla separazione, forse perché da quando il padre viveva nel nuovo
appartamento, per ironia della sorte, lo vedevano più di prima. Per di più quest’anno,
per Natale, avrebbero ricevuto regali doppi: quelli che avrei sistemato sotto l’albero
e quelli che aveva comprato il loro papà, che aveva mantenuto il più stretto
riserbo sui suoi acquisti. I bambini, con me, erano stati particolarmente esigenti,
avrei voluto sapere se con lui avevano agito allo stesso modo. Le loro
letterine erano sotto l’albero, ciascuna conteneva una lista di almeno dieci
regali, se avessi voluto accontentare tutte le loro richieste avrei dovuto fare
almeno tre lavori. Per Luca avevo comprato dei videogiochi adatti a bambini di
otto anni e per Giada, che ne aveva cinque appena compiuti, una batteria, speravo
lasciasse in pace i mobili di casa che percuoteva con qualsiasi oggetto le
capitasse a tiro.
Adoravo i miei pulcini, erano la mia ragione di vita, invece
Vittorio lo odiavo. Anche se forse non era proprio odio, il mio, ce l’avevo con
lui, ce l’avevo maledettamente con lui, per aver ascoltato l’uccello più che il
cervello. Probabilmente odiavo solo Daniela, la sua segretaria perfetta, un serpente a sonagli che, pur strisciando, riusciva ad arrampicarsi
meglio dell’uomo ragno a qualsiasi persona o cosa puntasse. Da un po’ di mesi Daniela
era la compagna di Vittorio, da molto prima che io e lui ci separassimo; il
vigliacco non lo aveva ammesso, ma le sue risposte evasive e il suo sguardo basso
erano state più di una conferma.
Scossi il capo per scrollarmi di dosso i pensieri. Era la
vigilia di Natale non potevo guastarla con la tristezza o, peggio, con la
rabbia; il Natale regala la sua magia solo a chi è disposto ad accoglierla a cuor
contento e io non avevo intenzione di sprecare un’ipotetica occasione. Mi sarei
concessa di restare in pigiama tutto il giorno, avrei spalato la neve in
pigiama e fatto le faccende in pigiama, avrei cucinato in pigiama, comoda e rilassata,
e avrei ascoltato musica. Giada e Luca sarebbero tornati per cena, del giudizio
del resto del mondo m’importava poco.
Infilai il cappotto e uscii a pulire il vialetto. Rientrai
che tremavo, forse uscire in pigiama non era stata una buona idea. Misi su un
po’ di musica e cominciai a fare qualche faccenda. Mi scaldai in un lampo, quindi
indossai il grembiule e accesi i fornelli. Avevo lasciato scegliere ai bambini
il menù della vigilia e loro avevano chiesto pizzette, panzarotti, popcorn e fiumi di cola. Da mamma salutista qual ero,
sempre attenta a che in tavola vi fossero cibi sani, avevo concesso ai miei
marmocchi uno strappo alla regola come regalo extra, considerato che a Natale avrebbero
pranzato col papà e Daniela, la loro non mamma perfetta – la chiamavo così poiché
non riuscivo a trovarle un appellativo più elegante – probabilmente anche lei
avrebbe fatto dei regali ai bambini.
Scorciai le maniche e cominciai a impastare la farina col
lievito e l’acqua tiepida. Mi piaceva sentire fra le dita l’impasto che a mano
a mano diventava corposo ed elastico. Ricoprii la leccarda con della carta
forno e vi poggiai le palline di pasta affinché lievitassero. Preparai i
popcorn e ne caramellai una parte – piacevano tanto ai miei piccolini. Mangiai un
paio di toast, per mettere a tacere il languorino, e cominciai a friggere pizzette
e panzarotti.
I pensieri si agitavano nella mia testa come le mani sui
fornelli: solo l’anno scorso eravamo una famiglia.
Infilai in forno ciò che avevo preparato, perché non si
freddasse troppo, e salii di sopra a fare una doccia e lo shampoo – dovevo togliermi
di dosso l’odore di fritto.
Persi un po’ di tempo a fissare l’armadio. Infine scelsi il tubino
nero, quello con la scollatura che si allungava sulla schiena; pettinai i
capelli, che avrei voluto legare, ma che dopo lo shampoo erano più indomabili
della sottoscritta. Misi un filo di trucco e scesi di sotto ad apparecchiare la
tavola. La preparai con cura, come forse non avevo mai fatto, vi poggiai il
centrotavola, che avevo ordinato dal fioraio: dei rametti di vischio, intrecciati
alla base di quattro candele rosse, davano un tocco di colore al bianco che regnava
in tavola.
Mi sedetti sul divano ad aspettare l’ora di cena, ma non vi
restai a lungo, ero irrequieta, nervosa.
Accesi le luci dell’albero e quelle che avevo sistemato intorno
alle cornici delle finestre; Vittorio e i bambini erano in ritardo di dieci
minuti.
Tornai al tavolo e passai in rassegna la posizione delle
posate e dei bicchieri. Venti minuti di ritardo, ancora dieci e li avrei
chiamati.
Raddrizzai la cima dell’albero, che pendeva da un lato. Erano
passati venticinque minuti e i bambini non si vedevano.
Il suono del campanello mi fece sobbalzare.
Sorrisi, erano arrivati. Corsi alla porta. Lisciai il
vestito sui fianchi e diedi qualche colpetto ai capelli, mi guardai nello
specchio dell’ingresso. “Mm, niente male”, pensai.
Spalancai la porta.
Vittorio indossava un cappotto nero e dalla scollatura
spuntava un papillon. Era attraente, elegante, gli occhi chiari e la barba tipicamente
irlandese spiccavano sugli abiti scuri; senza dubbio di lì a poco avrebbe
incontrato Daniela. Giada aveva i riccioli scompigliati e la sciarpa, poggiata solo
su una spalla, le arrivava al bordo degli stivali; il suo cappottino era sbottonato.
Luca indossava sciarpa e cappello, ma non il cappotto che stringeva fra le
braccia come un orsacchiotto. Tutti e tre avevano le guance color mela annurca.
Non riuscii a trattenere una smorfia. «Buonasera!» esordii
con tono aspro. «Vi rendete conto che siamo sotto zero e che tu, giovanotto,
non indossi il cappotto…» Puntai il dito sulla faccia di Luca. «E tu, signorina,
cosa ti è successo? Sembri appena uscita da un frullatore!» Feci una pausa,
guardai i loro sorrisetti maliziosi. «Papà vi ha fatti correre, scommetto,
avete il viso in fiamme! Filate in camera, monelli che non siete altro!» E
lanciai un’occhiataccia a Vittorio.
Lui stirò gli angoli della bocca e non disse nulla.
«Mamma, mamma, ho colpito due volte papà e una volta Luca!» Squittì
Giada scostando un ricciolo bruno che le copriva un occhio. L’altro
sopracciglio luccicava per i cristalli di ghiaccio che vi erano rimasti appiccicati.
Passai la mano sul viso di Giada, era caldo e umido. Con
quel freddo aveva sudato?! Presi il cappottino dalle mani di Luca e gli toccai
la nuca: anche lui era sudato. «Filate di sopra a cambiarvi e lavate bene le
mani, fra un po’ si cena!» Urlai. Dovetti urlare, i bambini erano talmente
eccitati che m’ignoravano, letteralmente, e continuavano a parlare fra loro.
All’ennesimo urlo si decisero a imboccare le scale.
Luca si fermò a metà rampa e annusò l’aria. «Uhm, che profumino!»
esclamò leccandosi le labbra. «Tre pizzette sono mie!» strepitò allargando tre
dita, poi si voltò verso di me. «Mamma, hai fatto i popcorn come avevi promesso?»
Annuii e lui sparì oltre il ballatoio sfregandosi le mani.
Mi girai e squadrai Vittorio. «Cavolo, sono tutti sudati!
Perché non pensi mai che potrebbero ammalarsi?»
Lui mi passò accanto. «Grazie, entro volentieri», disse. Ammiccò
e, guardando il mio didietro, accennò un fischio di apprezzamento. «Sei
bellissima», disse con un filo di voce.
Non raccolsi, non lo ringraziai, probabilmente lo aveva
detto solo per evitare la strigliata.
Vittorio abbassò lo sguardo, sbuffò e riprese: «Venendo qui,
ci siamo tirati le palle di neve. È colpa mia, non prendertela con loro, volevo
sentirli ridere. Mi mancano le loro risate, mi mancano i momenti che passavamo
insieme.»
«Oh, certo, ti mancano, certo», ribattei. «Quanti saranno
stati, in dieci anni, i mesi che abbiamo passato insieme? Ehm, vediamo,
probabilmente dieci? Come le estati, più qualche settimana di bonus che ti concedo.
Scusami tanto, ma di cosa parliamo?»
Alzò gli occhi al cielo. «Ti adoro quando ti arrabbi, anche
se dici solo cavolate. Il lavoro…»
«Oh, sì sì, il lavoro», lo interruppi. «Come avrò fatto a
non considerare il lavoro!»
Lui sbuffò, sembrava pensieroso, e dispiaciuto, soprattutto
non cercava lo scontro – normalmente mi avrebbe risposto a tono. C’era qualcosa
di strano nel suo atteggiamento. Probabilmente i bambini gli mancavano sul serio,
probabilmente cominciava a rendersi conto del tesoro prezioso che aveva gettato
alle ortiche. Quante cose si sarebbe perso di Giada e Luca, avrebbe perso le
loro conquiste, i loro dispiaceri, le loro gioie, e quanto di loro aveva già
perso per sempre a causa del suo dannato lavoro.
Sbuffai. «Nah, è la vigilia di Natale, non mi costringerai a
fare la cattiva anche oggi.» Feci un sorrisetto e cambiai subito argomento. “In
fondo l’inferno se l’è cercato, che ci bruci!” pensai. Poi aggiunsi: «Hai
programmi per stasera? Vedo un papillon che spunta dal tuo cappotto… stai bene,
sai? Sei at… ahm, elegante».
Scosse la testa. Vittorio aveva un modo tutto suo di
scuotere la testa, un modo attraente, e dopo sollevava le sopracciglia. Mi
fissò. «Con Daniela vado al Patsy’s, hanno preparato un menù niente male per
stasera, anche se non ho molta fame e non sono di buonumore.»
Avrei risposto che il suo imbarazzo si vedeva lontano un
miglio, aveva gli occhi che luccicavano, ma poi pensai che dovevo farmi gli affari
miei. «Ah, buon divertimento a tutt’e due, allora, e buon Natale.» Mi strinsi
le braccia intorno al petto e feci un passo indietro, volevo evitare che
provasse ad abbracciarmi.
«Un po’ t’invidio», sospirò.
«Per cosa? Resto a casa, guarderò un film con i bambini,
credo, e mangeremo pizzette, popcorn e panzarotti
fino a riempirci.»
Lui si passò una mano dietro la nuca e increspò le labbra.
«Passerai la vigilia insieme ai bambini, ehm… anch’io vorrei stare con loro e… con
te.» E mi guardò come non mi guardava da molto tempo: con amore.
Il suo sguardo mi spiazzò, la sua espressione malinconica
era da compatire. Non riuscii ad aggiungere altro. I bambini mi salvarono dall’imbarazzo
e, forse, mentre lo salutavano con abbracci e bacini, un po’ mi pentii della freddezza,
del distacco, con cui lo avevo trattato. Era più forte di me, quando incontravo
Vittorio in automatico ripercorrevo i momenti terribili che mi aveva fatto
vivere. Il suo gesto infame aveva cancellato tutto il bello che c’era stato fra
noi, probabilmente tutta la stima e l’amore che un tempo provavo per lui.
Vittorio andò via e dopo un po’ ci sedemmo a tavola. I
bambini divorarono la cena a base di schifezze
e mai come quella sera furono più che impazienti di andare a dormire. «Mamma, è
vero che Babbo Natale non arriva fino a quando siamo svegli?» domandò Giada
mentre addentava una fetta di pandoro che le aveva già imbiancato le guance
paffute.
«Ehm, forse», risposi con un sorriso. Ero stanca, per giunta
dovevo svegliarmi nel cuore della notte per sistemare i doni sotto l’albero.
Non che fosse una novità, da quando ero separata, le notti erano costellate di
risvegli.
A mezzanotte rimboccai le coperte ai bambini e filai a letto
– ogni sera il materasso diventava sempre più grande e sempre più gelido. Mi
addormentai quasi subito, avevo la schiena a pezzi.
Spalancai gli occhi alle due e venti; i numeri della sveglia
rischiaravano la camera col loro alone azzurrognolo. Forse avevo sentito un
rumore, o forse lo avevo solo sognato. Mi avvicinai alla finestra e mi raggomitolai
nel golfino di lana di due taglie più grande. I fiocchi di neve, spinti dalle
folate di vento, cercavano di ricoprire delle orme che arrivavano proprio alla
nostra porta d’ingresso. Chissà chi era il folle che passeggiava sotto la
tormenta di neve a quell’ora della notte.
Sfregai le mani per scaldare le dita e attraversai il
ballatoio. Scesi appena un paio di gradini quando un rumore sordo, cupo, mi
bloccò il respiro. C’era qualcuno in casa.
Mi portai la mano sulla bocca per soffocare l’urlo che provò
a salire dalla gola, e continuai a scendere stando attenta a non fare rumore.
La porta dell’ingresso era socchiusa e le folate portavano
dentro i fiocchi di neve a ondate.
I miei occhi si spalancarono come forse non avevano mai
fatto. Non mi ero sbagliata, era entrato qualcuno.
Attraversai l’ingresso e sfiorai il portaombrelli. La mazza
da baseball di Luca luccicò fra i manici come un gruzzolo di monete d’oro fra i
sassi. Mai come in quel momento lodai il suo disordine.
Afferrai la mazza a due mani, la portai all’altezza della
spalla – avrei colpito con tutte le forze, e anche di più, chiunque mi si fosse
parato davanti.
Con passo felpato, seguii le orme bagnate che l’intruso
aveva stampato sul pavimento. Doveva essere solo, le tracce di due suole vicine
si perdevano nel buio del salone. Mentre mi avvicinavo al nemico, caricai i
muscoli delle braccia; dovevo sferrare un colpo deciso, letale, veloce: dovevo evitare
che quel bastardo salisse di sopra dai bambini.
Strizzai gli occhi per individuare qualunque cosa si muovesse
nel buio. I fili di lucine che avevo messo intorno alle finestre illuminavano a
intermittenza il pian terreno.
Tenendo le spalle attaccate al muro, raggiunsi il salone. Fu
allora che vidi qualcuno accovacciato ai piedi dell’albero.
“Sarà un ladro di regali di Natale” pensai. “Mm… mica scemo,
si è vestito da Babbo Natale per non dare nell’occhio. Avrà intenzione di
rivendere per l’Epifania il malloppo che racimola stasera, oppure… potrebbe
aver perso il lavoro e non avere soldi per comprare dei regali ai suoi bambini…”
Scossi la testa, non dovevo azzardarmi a romanzare la situazione. Il bastardo
era entrato in casa mia per rubare.
Abbassai la mazza all’altezza del petto e feci un respiro.
Mi avvicinai all’uomo accovacciato ai piedi dell’albero che intanto borbottava qualcosa
d’incomprensibile. Parlava da solo, forse era fuori di testa. Puntai la mazza dietro
la sua nuca e dissi: «Alza le mani, bastardo… Niente scherzi. Una mossa
sbagliata e ti stacco la testa!»
Lui alzò le mani, lentamente. Si mise dritto in piedi. «Non
fare stupidaggini sono io!» replicò sottovoce.
«Io chi?» Conoscevo quella voce, ma era meglio non abbassare
la guardia.
«Sono Vittorio!» sussurrò il ladro.
«Come diamine… come vuoi che ti riconosca al buio e bardato
in questo modo!? Come mai sei qui, a quest’ora, per giunta vestito da Babbo
Natale!?» ringhiai. L’interruttore delle luci dell’albero era vicino ai miei
piedi e lo premetti.
Vittorio fece un giro su se stesso, un giro un tantino
incerto, afferrò la barba candida e fluente e se la portò sotto al mento,
quindi aggiunse con aria ebete: «Sono venuto per portare il regalo ai bambini».
E concluse la frase con un singhiozzo.
Aveva alzato il gomito, era ubriaco fradicio.
«Potevi avvisarmi che saresti piombato in casa nel cuore
della notte! Potevo restarci secca!» borbottai.
Lui piegò la faccia in una smorfia. «Sono stato attentissimo
a non fare rumore, ma, ehm, la bottiglia di porto che ho mandato giù mi ha
appannato un po’ la vista e non mi fa camminare come vorrei.» Concluse con un
altro singhiozzo.
«Hai bevuto. Non è cosa buona per un astemio. Vado a
preparare del caffè, ti aiuterà a smaltire
la sbornia.»
«Non lasciarmi solo, stammi vicino, ho bisogno di sentire il
tuo profumo.» Allungò entrambe le braccia sulle mie spalle e si appoggiò a me.
Cercai di sorreggerlo, ci provai con tutte le mie forze, ma
era pesante e le gambe lo reggevano appena. Le mie gambe poi non riuscirono a
sostenere il peso di entrambi. Feci pochi passi in direzione del divano, ma a
un certo punto lui inciampò nel tappeto e mi trascinò con sé sul pavimento. Evitammo
solo per pochi centimetri il tavolino di cristallo.
«Tutto bene?» domandai mettendomi seduta.
Lui non rispose subito, cominciò a fissarmi come se mi
vedesse per la prima volta. Allungò la mano tremante verso di me e fece
scivolare un dito sulla mia guancia. «Niente più va bene…» biascicò, «niente, niente,
niente, da quando ti ho lasciata. Stasera mi sono maledetto per ciò che ho
fatto a te e ai bambini. La nostra famiglia era la cosa più bella che avevo, ma
ho preferito altro. Sono un idiota.» E sbuffò.
Il suo viso si accostò al mio. Con una mossa decisa mi
allontanai. Era ubriaco, l’alcool parlava per lui.
Il tappetto aveva attutito la caduta, ma non il freddo che saliva
dal pavimento. Gattonai fino al pannello radiante, che simulava la fiamma di un
camino acceso, e lo avviai. Dopo un po’ smisi di tremare.
«Non muoverti, vado a preparare un buon caffè, torno subito», ribadii, e feci per alzarmi.
«Vieni qui…» esordì lui. Con una mossa decisa, abbrancò il
mio braccio e mi tirò a sé.
«Sei ubriaco, la cena di stasera sarà andata alla grande.»
Scossi il capo e provai a divincolarmi.
«Non ho cenato. Ho lasciato Daniela, definitivamente. Le ho
detto che la mia famiglia mi manca, che la rivoglio. Che desidero mia moglie e
i miei figli vicino e che sono disposto a tutto pur di riconquistarvi. La
bottiglia di porto è venuta dopo, quando ho pensato che non mi avresti voluto…
che non mi avresti dato un’altra possibilità.»
Ci guardammo per qualche meraviglioso istante. Alcool, o non
alcool, quelle parole venivano dal cuore, erano sincere e il suo sguardo lo confermava:
i suoi occhi brillavano della stessa luce della quale mi ero innamorata.
Le nostre labbra si cercarono, si sfiorarono appena. Il
bacio arrivò dopo qualche indecisione, e fu sublime. Il cuore cominciò a bussare
come la prima volta nella quale ci eravamo baciati. In un solo istante la
rabbia, il rancore, furono annientati da un amore mai sopito, che era restato
lì, nascosto in un cantuccio, in attesa di tempi migliori.
«Vado a preparare il caffè…»
biascicai. Lui allentò la presa e mi permise di alzarmi. Non so perché, ma il
mio sguardo scivolò sull’albero di Natale. Ai suoi piedi non c’erano i regali
che Vittorio sosteneva di aver portato ai bambini. «Ahm… dove sono i regali per
Giada e Luca?»
«I bambini non mi hanno chiesto giocattoli», fece lui.
«Sul serio?» esclamai incredula. «A me hanno chiesto una valanga
di doni!»
Lui aggiunse: «Non mi hanno chiesto cose, volevano solo che
tornassi a casa».
Sorrisi, non aggiunsi altro. I miei piccoli angeli mi
avevano regalato ciò che ormai davo per perduto, una famiglia unita: la
felicità. Perciò, a chi dice che gli angeli non esistono, dico di venire a
conoscere Giada e Luca, loro, il primo miracolo, lo hanno già fatto.
Spero che "Angeli di Natale" vi sia piaciuta, è una storia breve che ho scritto nel dicembre 2018 per un contest a tema natalizio. Se volete, potete commentare e lasciarmi le vostre impressioni.
Buon 2021! Che il nuovo anno sia sereno e ricco di traguardi entusiasmanti. 💓😘
Commenti
Posta un commento