All rights reserved - © copyright Franca Fenu

Ogni tentativo di plagio, anche parziale, dei contenuti di questo blog, è vietato e sarà segnalato alle autorità competenti. Estratti dei testi possono essere condivisi, per esempio sotto forma di citazione, solo indicando il nome dell'Autrice.

Le mie storie brevi

 

🎁 Il Premio Misterioso🎁

 (Storia breve di 1524 parole pubblicata per la prima volta il 17 sett. 2019 su @Wattpad. Storia vincitrice del Concorso Trilingue "The Treasure Hunted" organizzato dagli @AmbassadorsITA).

🎁🎁🎁

"Il balcone della signora Nora nasconde un segreto. Se sei così in gamba da riuscire a capire qual è, sei sulla buona strada per aspirare alla vittoria", diceva il biglietto e sotto riportava questi caratteri:

 

UIOSRAFEE

IOBNDRCA

UPPRRUOE

 

RALLENTARERIVOLTAIVA (5,5,5,2,3)

 

«Sono anagrammi, ragazzi! Una parola e una frase», esordì Silvia che già pregustava la vittoria. Aveva gli occhioni che sbrilluccicavano di soddisfazione.

 Le nostre teste facevano da corolla a quel biglietto.

 Silvia non aveva torto. Solo altri tre foglietti, come quello che ci eravamo appena aggiudicati, conducevano al quesito finale, e noi eravamo il primo fra i gruppi rimasti in gara ad aver raccolto il penultimo indizio. Avevamo ottime chance di mettere le mani sulla coppa e quindi sul fatidico premio misterioso. Eh già, quell'anno il vincitore si sarebbe aggiudicato un premio extra sulla cui natura gli organizzatori avevano mantenuto il più stretto riserbo, ma che doveva essere eclatante vista l'enfasi che avevano dato alla campagna promozionale. Quel premio era già leggenda; in giro non si parlava d'altro. Il mistero poi aveva decuplicato le adesioni alla caccia. Chiunque avesse vinto doveva essere indubbiamente scaltro per sbaragliare tanti avversari. E noi lo eravamo, decisamente, scaltri e arguti, avevamo già annientato un centinaio di lupi famelici.

 «Un "bianco" e un "rosa" sono nascosti fra le prime righe, ma non contano, giusto?» osservò Tonia grattandosi la punta del naso. E ridusse a due fessure i suoi occhi verde smeraldo.

 Davide, suo fratello, aggiunse: «È un anagramma, devi usare tutte le lettere, bianco e rosa sono infidi tranelli. Ma nella terza riga c'è un "purpureo" che mi piace tanto. Siamo decisamente grandi!» E ammiccò con quei suoi bellissimi occhi scuri dalle ciglia lunghe.

Davide aveva classe da vendere ed era svelto di cervello, una dote che non passava inosservata.

Mi strofinai la fronte. «La frase, mm, non sembra facile.»

 Tonia abbozzò uno schema sopra un foglio. «Ricapitolando, abbiamo tre indizi: la signora Nora, il suo balcone e il "purpureo" scoperto da Davide... Si tratterà di una delle piante che Nora coltiva sul terrazzino?»

La domanda era retorica.

 Appuntammo i caratteri della frase nascosta su cinque foglietti e ciascuno prese il proprio. Usammo le scale della parrocchia come pensatoio e scrittoio. Cancellavamo e scrivevamo per poi cancellare ancora e riscrivere.

 «Ci sono!» urlò a un tratto Mario. I suoi dread sussultarono con lui. «La frase è: "nella terra trovi la via"! È di cinque, cinque, cinque, due e tre caratteri! Probabilmente il nostro indizio è nascosto dentro un vaso color porpora!» Alzò il palmo. Era straorgoglioso di aver contribuito a svelare l'enigma.

Schiacciammo i nostri palmi contro quello di Mario ed esultammo con lui. Adesso avevamo sul serio la vittoria in pugno, non ci restava che raggiungere di corsa il parco nel quale abitavamo.

 Il nostro condominio rappresentava la penultima tappa della caccia, a detta del biglietto. Il lussureggiante terrazzino della signora Nora era al primo piano e ospitava una piccola ma attrezzatissima serra piena di piante delicate, rare e costosissime. La passione di Nora per i fiori era famosa fra noi condomini.

 Trafelati raggiungemmo il palazzo. Ci attaccammo alla pulsantiera del citofono, ma Nora non rispose.

 «Com'è possibile? Il suo balcone è la tappa finale, non può essere uscita proprio adesso! Ci serve il suo aiuto, dannazione! È contro il regolamento abbandonare la postazione nel momento conclusivo della gara!» sbraitai. «Abbiamo faticato tanto per arrivare a questo punto, accidenti!»

Tonia annuì e disse risentita: «Hai ragione, Monica, non è regolare! Gli organizzatori ci sentiranno!»

 In quel preciso istante il signor Tanzi, che abitava al quarto piano, si avvicinò al portone e lo aprì.

Ci guardammo negli occhi e ci intendemmo al volo. Fu un attimo. Ci intrufolammo nell'androne rimediando uno sbuffo e uno "screanzati!" urlato con sdegno e col braccio per aria.

 Arrivammo col cuore a mille alla porta di Nora. Era socchiusa. Forse era dovuta uscire per qualcosa di urgente e ci aveva lasciato la porta aperta affinché proseguissimo la gara.

Ci scambiammo sguardi d'intesa; dovevamo entrare, sebbene nessuno ci aveva invitato a farlo.

Tonia spinse la porta con un dito. «Nora, ci sei?» domandò con voce sommessa.

Nora non rispose.

 Imboccammo il corridoio e arrivammo in cucina – gli appartamenti del palazzo erano tutti più o meno simili e conoscevamo la strada. La cucina dava sul terrazzo, il posto che cercavamo. Appena entrammo in quella stanza, la nostra attenzione si spostò subito sul pavimento. Un vaso di ciclamini color porpora, del più bel tono di rosso vivo che avessi mai visto e al quale senza dubbio la signora Nora teneva moltissimo, giaceva irrimediabilmente spaccato sul pavimento. Forse dovevamo cercare proprio quei ciclamini, il colore era quello citato nell'indizio. Il pavimento era pieno di cocci, terriccio e impronte di suole maschili. Le tracce imbrattavano anche il corridoio.

 «Uhm, anche lo zerbino davanti alla porta d'ingresso era sporco di terriccio, le impronte andavano verso le scale. Nora ci tiene troppo ai suoi fiori, qui è successo qualcosa... ehm, guardate sotto il tavolo.» Mi sedetti sulle caviglie. C'era un bussolotto giallo, di plastica, sul pavimento, sembrava di quelli che proteggono la sorpresa nelle uova di cioccolato.

Lo raccolsi.

 Non esitai un solo istante ad aprirlo. Dentro c'era un biglietto che srotolai. Il biglietto diceva: "Complimenti! Potreste essere i vincitori della nostra mitica caccia al tesoro! Raggiungete la biblioteca comunale e portate con voi questo biglietto. La classifica sarà stilata in base all'ordine di arrivo. La gara si concluderà improrogabilmente alle quattro. Vi aspettiamo!".

Stavolta avevamo davvero la vittoria in pugno, avevamo trovato l'indizio finale, quello decisivo. Se ci fossimo sbrigati, entro qualche minuto saremmo arrivati in biblioteca. Eppure nessuno aveva voglia di esultare e nessuno sorrideva.

 «E se fosse successo qualcosa a Nora?» esordì Silvia con tono allarmato. «Lei è anziana e indifesa! Se avesse aperto in buona fede a un delinquente scambiandolo per un concorrente della gara?! E se il bastardo le avesse fatto del male? Non possiamo voltarci dall'altra parte, lei aspettava noi!»

Davide annuì. «Le tracce portano alla rampa di scale che scende nell'interrato...» precisò, «forse corro troppo con la fantasia, ma, ehm, se l'avessero trascinata di sotto e avesse bisogno di aiuto? Io dico di andare a dare un'occhiata, e in fretta.»

 Mario aggiunse: «Anche un solo minuto potrebbe essere fatale per lei».

Silvia, con gli occhi sbarrati, biascicò: «Okay, cosa stiamo aspettando?»

«Sai che vuol dire questo, vero?» ribattei rassegnata. «Lo sapete tutti…»

«Possiamo dire addio alla vittoria...» precisò Silvia. «La vita di Nora è più importante di uno stupido premio, non voglio convivere col rimorso di averla potuta salvare e di essermene sbattuta. Io vado di sotto a vedere se ancora respira e se ha bisogno di me.» E si avviò alla porta.

 La sua scelta divenne la nostra.

Imboccammo la rampa di scale che portava nell'interrato.

Le impronte segnavano l'ultimo gradino e si spingevano oltre.

 Seguimmo le tracce accompagnati dalla luce dei cellulari. Dovevamo stare molto attenti a dove mettevamo i piedi, gli operai stavano ristrutturando i box nel garage e c'erano travi di legno, secchi e teloni dappertutto. Tuttavia il percorso era obbligato, chiunque fosse sceso prima di noi lì sotto doveva aver fatto la stessa strada.

Per non fare rumore stavamo anche attenti a come respiravamo.

 Arrivammo a una porta di ferro; era socchiusa. A segni ci dicemmo di spegnere le luci dei display, poteva esserci chiunque al di là dell'uscio e la luce poteva metterci in pericolo.

 Davide aprì lentamente la porta. Il buio era totale.

 Dei rumori metallici segnarono l'accensione progressiva di molti neon.

L'ambiente spazioso s'illuminò a giorno. Venivamo dal buio totale e di riflesso chiudemmo gli occhi.

 Un applauso ci costrinse a guardare.

 Una decina di persone erano schierate di fronte a noi e sorridevano. C'era anche Nora con loro, ed era in piena forma, e sorrideva anche lei.

 Il nostro sindaco, col largo tricolore sul petto, si trovava al centro del gruppo.

 Di certo noi altri avevamo delle espressioni da incorniciare: un mix allucinante di paura, sgomento e meraviglia insieme.

 Il sindaco ci venne incontro col braccio teso e il palmo aperto. Ci strinse la mano e disse: «I due gruppi che hanno raccolto l'ultimo indizio, come voi altri, hanno già raggiunto la biblioteca comunale...»

 Davide ribatté: «È chiaro.» Annuì con un'espressione piena di rammarico. Nora stava bene, ci eravamo preoccupati per niente, avevamo perso tempo e rinunciato alla vittoria.

 Il sindaco continuò: «Se mi lasci finire, ragazzo, forse riesco a... ehm, spiegarmi. Dunque...» Afferrò una coppa scintillante e la consegnò a Silvia e a ciascuno di noi diede una pergamena. «A nome di tutto il Consiglio Comunale vi conferisco, ragazzi, il premio misterioso di quest'anno: la più Alta Onorificenza per aver contribuito al lustro della città. Avete scelto di aiutare Nora anziché correre ad aggiudicarvi la vittoria. E noi ci congratuliamo. Il vostro è l'unico gruppo, fra i finalisti, ad aver fatto questa scelta. Siete cittadini esemplari. L'Alta Onorificenza Comunale vi dà la facoltà di assistere, quando vorrete, alle nostre sedute e vi permette di esprimere le vostre idee per migliorare la città.»

 Tutti si complimentarono. Avevamo vinto ed eravamo diventati anche cittadini modello.

Il premio misterioso era più prezioso di quanto avessimo mai sperato.

🎄 Angeli di Natale 🎄

(One shot pubblicata per la prima volta nel dicembre 2018)

Il mio respiro appannò il vetro.

Ogni volta che andavano via, li osservavo fino a quando svoltavano l’angolo in fondo alla strada. Tutti e tre, mano nella mano, erano bellissimi; erano ciò che di più prezioso avevo al mondo.

Strinsi fra i palmi la tazza di latte caldo e rum, il suo tepore era confortante, ne bevvi un sorso e continuai a guardarli. Parlavano di chissà cosa. La piccolina, Giada, più chiacchierina di suo fratello Luca, stava dicendo qualcosa al padre, vedevo Vittorio che annuiva e sorrideva. Li osservai fino a quando non diventarono una macchiolina piccola piccola, poi i miei occhi saltarono svogliatamente sul manto nevoso che copriva il vialetto e che non avevo ancora spalato. Sbuffai, da quando io e mio marito c’eravamo separati, da quattro mesi ormai, toccava a me ripulire il vialetto. La casa nella quale abitavamo l’avevamo tenuta io e i bambini, Vittorio aveva preso un appartamentino in fondo alla strada, diceva di volerci stare vicino, anche se quando vivevamo insieme non faceva che stare lontano da casa. A prima vista Giada e Luca, i miei pulcini, non sembravano particolarmente provati dalla separazione, forse perché da quando il padre viveva nel nuovo appartamento, per ironia della sorte, lo vedevano più di prima. Per di più quest’anno, per Natale, avrebbero ricevuto regali doppi: quelli che avrei sistemato sotto l’albero e quelli che aveva comprato il loro papà, che aveva mantenuto il più stretto riserbo sui suoi acquisti. I bambini, con me, erano stati particolarmente esigenti, avrei voluto sapere se con lui avevano agito allo stesso modo. Le loro letterine erano sotto l’albero, ciascuna conteneva una lista di almeno dieci regali, se avessi voluto accontentare tutte le loro richieste avrei dovuto fare almeno tre lavori. Per Luca avevo comprato dei videogiochi adatti a bambini di otto anni e per Giada, che ne aveva cinque appena compiuti, una batteria, speravo lasciasse in pace i mobili di casa che percuoteva con qualsiasi oggetto le capitasse a tiro.

Adoravo i miei pulcini, erano la mia ragione di vita, invece Vittorio lo odiavo. Anche se forse non era proprio odio, il mio, ce l’avevo con lui, ce l’avevo maledettamente con lui, per aver ascoltato l’uccello più che il cervello. Probabilmente odiavo solo Daniela, la sua segretaria perfetta, un serpente a sonagli che, pur strisciando, riusciva ad arrampicarsi meglio dell’uomo ragno a qualsiasi persona o cosa puntasse. Da un po’ di mesi Daniela era la compagna di Vittorio, da molto prima che io e lui ci separassimo; il vigliacco non lo aveva ammesso, ma le sue risposte evasive e il suo sguardo basso erano state più di una conferma.

Scossi il capo per scrollarmi di dosso i pensieri. Era la vigilia di Natale non potevo guastarla con la tristezza o, peggio, con la rabbia; il Natale regala la sua magia solo a chi è disposto ad accoglierla a cuor contento e io non avevo intenzione di sprecare un’ipotetica occasione. Mi sarei concessa di restare in pigiama tutto il giorno, avrei spalato la neve in pigiama e fatto le faccende in pigiama, avrei cucinato in pigiama, comoda e rilassata, e avrei ascoltato musica. Giada e Luca sarebbero tornati per cena, del giudizio del resto del mondo m’importava poco.

Infilai il cappotto e uscii a pulire il vialetto. Rientrai che tremavo, forse uscire in pigiama non era stata una buona idea. Misi su un po’ di musica e cominciai a fare qualche faccenda. Mi scaldai in un lampo, quindi indossai il grembiule e accesi i fornelli. Avevo lasciato scegliere ai bambini il menù della vigilia e loro avevano chiesto pizzette, panzarotti, popcorn e fiumi di cola. Da mamma salutista qual ero, sempre attenta a che in tavola vi fossero cibi sani, avevo concesso ai miei marmocchi uno strappo alla regola come regalo extra, considerato che a Natale avrebbero pranzato col papà e Daniela, la loro non mamma perfetta – la chiamavo così poiché non riuscivo a trovarle un appellativo più elegante – probabilmente anche lei avrebbe fatto dei regali ai bambini.

Scorciai le maniche e cominciai a impastare la farina col lievito e l’acqua tiepida. Mi piaceva sentire fra le dita l’impasto che a mano a mano diventava corposo ed elastico. Ricoprii la leccarda con della carta forno e vi poggiai le palline di pasta affinché lievitassero. Preparai i popcorn e ne caramellai una parte – piacevano tanto ai miei piccolini. Mangiai un paio di toast, per mettere a tacere il languorino, e cominciai a friggere pizzette e panzarotti.

I pensieri si agitavano nella mia testa come le mani sui fornelli: solo l’anno scorso eravamo una famiglia.

Infilai in forno ciò che avevo preparato, perché non si freddasse troppo, e salii di sopra a fare una doccia e lo shampoo – dovevo togliermi di dosso l’odore di fritto.

Persi un po’ di tempo a fissare l’armadio. Infine scelsi il tubino nero, quello con la scollatura che si allungava sulla schiena; pettinai i capelli, che avrei voluto legare, ma che dopo lo shampoo erano più indomabili della sottoscritta. Misi un filo di trucco e scesi di sotto ad apparecchiare la tavola. La preparai con cura, come forse non avevo mai fatto, vi poggiai il centrotavola, che avevo ordinato dal fioraio: dei rametti di vischio, intrecciati alla base di quattro candele rosse, davano un tocco di colore al bianco che regnava in tavola.

Mi sedetti sul divano ad aspettare l’ora di cena, ma non vi restai a lungo, ero irrequieta, nervosa.

Accesi le luci dell’albero e quelle che avevo sistemato intorno alle cornici delle finestre; Vittorio e i bambini erano in ritardo di dieci minuti.

Tornai al tavolo e passai in rassegna la posizione delle posate e dei bicchieri. Venti minuti di ritardo, ancora dieci e li avrei chiamati.

Raddrizzai la cima dell’albero, che pendeva da un lato. Erano passati venticinque minuti e i bambini non si vedevano.

Il suono del campanello mi fece sobbalzare.


Sorrisi, erano arrivati. Corsi alla porta. Lisciai il vestito sui fianchi e diedi qualche colpetto ai capelli, mi guardai nello specchio dell’ingresso. “Mm, niente male”, pensai.

Spalancai la porta.

Vittorio indossava un cappotto nero e dalla scollatura spuntava un papillon. Era attraente, elegante, gli occhi chiari e la barba tipicamente irlandese spiccavano sugli abiti scuri; senza dubbio di lì a poco avrebbe incontrato Daniela. Giada aveva i riccioli scompigliati e la sciarpa, poggiata solo su una spalla, le arrivava al bordo degli stivali; il suo cappottino era sbottonato. Luca indossava sciarpa e cappello, ma non il cappotto che stringeva fra le braccia come un orsacchiotto. Tutti e tre avevano le guance color mela annurca.

Non riuscii a trattenere una smorfia. «Buonasera!» esordii con tono aspro. «Vi rendete conto che siamo sotto zero e che tu, giovanotto, non indossi il cappotto…» Puntai il dito sulla faccia di Luca. «E tu, signorina, cosa ti è successo? Sembri appena uscita da un frullatore!» Feci una pausa, guardai i loro sorrisetti maliziosi. «Papà vi ha fatti correre, scommetto, avete il viso in fiamme! Filate in camera, monelli che non siete altro!» E lanciai un’occhiataccia a Vittorio.

Lui stirò gli angoli della bocca e non disse nulla.

«Mamma, mamma, ho colpito due volte papà e una volta Luca!» Squittì Giada scostando un ricciolo bruno che le copriva un occhio. L’altro sopracciglio luccicava per i cristalli di ghiaccio che vi erano rimasti appiccicati.

Passai la mano sul viso di Giada, era caldo e umido. Con quel freddo aveva sudato?! Presi il cappottino dalle mani di Luca e gli toccai la nuca: anche lui era sudato. «Filate di sopra a cambiarvi e lavate bene le mani, fra un po’ si cena!» Urlai. Dovetti urlare, i bambini erano talmente eccitati che m’ignoravano, letteralmente, e continuavano a parlare fra loro. All’ennesimo urlo si decisero a imboccare le scale.

Luca si fermò a metà rampa e annusò l’aria. «Uhm, che profumino!» esclamò leccandosi le labbra. «Tre pizzette sono mie!» strepitò allargando tre dita, poi si voltò verso di me. «Mamma, hai fatto i popcorn come avevi promesso?»

Annuii e lui sparì oltre il ballatoio sfregandosi le mani.

Mi girai e squadrai Vittorio. «Cavolo, sono tutti sudati! Perché non pensi mai che potrebbero ammalarsi?»

Lui mi passò accanto. «Grazie, entro volentieri», disse. Ammiccò e, guardando il mio didietro, accennò un fischio di apprezzamento. «Sei bellissima», disse con un filo di voce.

Non raccolsi, non lo ringraziai, probabilmente lo aveva detto solo per evitare la strigliata.

Vittorio abbassò lo sguardo, sbuffò e riprese: «Venendo qui, ci siamo tirati le palle di neve. È colpa mia, non prendertela con loro, volevo sentirli ridere. Mi mancano le loro risate, mi mancano i momenti che passavamo insieme.»

«Oh, certo, ti mancano, certo», ribattei. «Quanti saranno stati, in dieci anni, i mesi che abbiamo passato insieme? Ehm, vediamo, probabilmente dieci? Come le estati, più qualche settimana di bonus che ti concedo. Scusami tanto, ma di cosa parliamo?»

Alzò gli occhi al cielo. «Ti adoro quando ti arrabbi, anche se dici solo cavolate. Il lavoro…»

«Oh, sì sì, il lavoro», lo interruppi. «Come avrò fatto a non considerare il lavoro!»

Lui sbuffò, sembrava pensieroso, e dispiaciuto, soprattutto non cercava lo scontro – normalmente mi avrebbe risposto a tono. C’era qualcosa di strano nel suo atteggiamento. Probabilmente i bambini gli mancavano sul serio, probabilmente cominciava a rendersi conto del tesoro prezioso che aveva gettato alle ortiche. Quante cose si sarebbe perso di Giada e Luca, avrebbe perso le loro conquiste, i loro dispiaceri, le loro gioie, e quanto di loro aveva già perso per sempre a causa del suo dannato lavoro.

Sbuffai. «Nah, è la vigilia di Natale, non mi costringerai a fare la cattiva anche oggi.» Feci un sorrisetto e cambiai subito argomento. “In fondo l’inferno se l’è cercato, che ci bruci!” pensai. Poi aggiunsi: «Hai programmi per stasera? Vedo un papillon che spunta dal tuo cappotto… stai bene, sai? Sei at… ahm, elegante».

Scosse la testa. Vittorio aveva un modo tutto suo di scuotere la testa, un modo attraente, e dopo sollevava le sopracciglia. Mi fissò. «Con Daniela vado al Patsy’s, hanno preparato un menù niente male per stasera, anche se non ho molta fame e non sono di buonumore.»

Avrei risposto che il suo imbarazzo si vedeva lontano un miglio, aveva gli occhi che luccicavano, ma poi pensai che dovevo farmi gli affari miei. «Ah, buon divertimento a tutt’e due, allora, e buon Natale.» Mi strinsi le braccia intorno al petto e feci un passo indietro, volevo evitare che provasse ad abbracciarmi.

«Un po’ t’invidio», sospirò.

«Per cosa? Resto a casa, guarderò un film con i bambini, credo, e mangeremo pizzette, popcorn e panzarotti fino a riempirci.»

Lui si passò una mano dietro la nuca e increspò le labbra. «Passerai la vigilia insieme ai bambini, ehm… anch’io vorrei stare con loro e… con te.» E mi guardò come non mi guardava da molto tempo: con amore.

Il suo sguardo mi spiazzò, la sua espressione malinconica era da compatire. Non riuscii ad aggiungere altro. I bambini mi salvarono dall’imbarazzo e, forse, mentre lo salutavano con abbracci e bacini, un po’ mi pentii della freddezza, del distacco, con cui lo avevo trattato. Era più forte di me, quando incontravo Vittorio in automatico ripercorrevo i momenti terribili che mi aveva fatto vivere. Il suo gesto infame aveva cancellato tutto il bello che c’era stato fra noi, probabilmente tutta la stima e l’amore che un tempo provavo per lui.

Vittorio andò via e dopo un po’ ci sedemmo a tavola. I bambini divorarono la cena a base di schifezze e mai come quella sera furono più che impazienti di andare a dormire. «Mamma, è vero che Babbo Natale non arriva fino a quando siamo svegli?» domandò Giada mentre addentava una fetta di pandoro che le aveva già imbiancato le guance paffute.

«Ehm, forse», risposi con un sorriso. Ero stanca, per giunta dovevo svegliarmi nel cuore della notte per sistemare i doni sotto l’albero. Non che fosse una novità, da quando ero separata, le notti erano costellate di risvegli.

A mezzanotte rimboccai le coperte ai bambini e filai a letto – ogni sera il materasso diventava sempre più grande e sempre più gelido. Mi addormentai quasi subito, avevo la schiena a pezzi.

Spalancai gli occhi alle due e venti; i numeri della sveglia rischiaravano la camera col loro alone azzurrognolo. Forse avevo sentito un rumore, o forse lo avevo solo sognato. Mi avvicinai alla finestra e mi raggomitolai nel golfino di lana di due taglie più grande. I fiocchi di neve, spinti dalle folate di vento, cercavano di ricoprire delle orme che arrivavano proprio alla nostra porta d’ingresso. Chissà chi era il folle che passeggiava sotto la tormenta di neve a quell’ora della notte.

Sfregai le mani per scaldare le dita e attraversai il ballatoio. Scesi appena un paio di gradini quando un rumore sordo, cupo, mi bloccò il respiro. C’era qualcuno in casa.

Mi portai la mano sulla bocca per soffocare l’urlo che provò a salire dalla gola, e continuai a scendere stando attenta a non fare rumore.

La porta dell’ingresso era socchiusa e le folate portavano dentro i fiocchi di neve a ondate.

I miei occhi si spalancarono come forse non avevano mai fatto. Non mi ero sbagliata, era entrato qualcuno.

Attraversai l’ingresso e sfiorai il portaombrelli. La mazza da baseball di Luca luccicò fra i manici come un gruzzolo di monete d’oro fra i sassi. Mai come in quel momento lodai il suo disordine.

Afferrai la mazza a due mani, la portai all’altezza della spalla – avrei colpito con tutte le forze, e anche di più, chiunque mi si fosse parato davanti.

Con passo felpato, seguii le orme bagnate che l’intruso aveva stampato sul pavimento. Doveva essere solo, le tracce di due suole vicine si perdevano nel buio del salone. Mentre mi avvicinavo al nemico, caricai i muscoli delle braccia; dovevo sferrare un colpo deciso, letale, veloce: dovevo evitare che quel bastardo salisse di sopra dai bambini.

Strizzai gli occhi per individuare qualunque cosa si muovesse nel buio. I fili di lucine che avevo messo intorno alle finestre illuminavano a intermittenza il pian terreno.

Tenendo le spalle attaccate al muro, raggiunsi il salone. Fu allora che vidi qualcuno accovacciato ai piedi dell’albero.

“Sarà un ladro di regali di Natale” pensai. “Mm… mica scemo, si è vestito da Babbo Natale per non dare nell’occhio. Avrà intenzione di rivendere per l’Epifania il malloppo che racimola stasera, oppure… potrebbe aver perso il lavoro e non avere soldi per comprare dei regali ai suoi bambini…” Scossi la testa, non dovevo azzardarmi a romanzare la situazione. Il bastardo era entrato in casa mia per rubare.

Abbassai la mazza all’altezza del petto e feci un respiro. Mi avvicinai all’uomo accovacciato ai piedi dell’albero che intanto borbottava qualcosa d’incomprensibile. Parlava da solo, forse era fuori di testa. Puntai la mazza dietro la sua nuca e dissi: «Alza le mani, bastardo… Niente scherzi. Una mossa sbagliata e ti stacco la testa!»

Lui alzò le mani, lentamente. Si mise dritto in piedi. «Non fare stupidaggini sono io!» replicò sottovoce.

«Io chi?» Conoscevo quella voce, ma era meglio non abbassare la guardia.

«Sono Vittorio!» sussurrò il ladro.

«Come diamine… come vuoi che ti riconosca al buio e bardato in questo modo!? Come mai sei qui, a quest’ora, per giunta vestito da Babbo Natale!?» ringhiai. L’interruttore delle luci dell’albero era vicino ai miei piedi e lo premetti.

Vittorio fece un giro su se stesso, un giro un tantino incerto, afferrò la barba candida e fluente e se la portò sotto al mento, quindi aggiunse con aria ebete: «Sono venuto per portare il regalo ai bambini». E concluse la frase con un singhiozzo.

Aveva alzato il gomito, era ubriaco fradicio.

«Potevi avvisarmi che saresti piombato in casa nel cuore della notte! Potevo restarci secca!» borbottai.

Lui piegò la faccia in una smorfia. «Sono stato attentissimo a non fare rumore, ma, ehm, la bottiglia di porto che ho mandato giù mi ha appannato un po’ la vista e non mi fa camminare come vorrei.» Concluse con un altro singhiozzo.

«Hai bevuto. Non è cosa buona per un astemio. Vado a preparare del caffè, ti aiuterà a smaltire la sbornia.»

«Non lasciarmi solo, stammi vicino, ho bisogno di sentire il tuo profumo.» Allungò entrambe le braccia sulle mie spalle e si appoggiò a me.

Cercai di sorreggerlo, ci provai con tutte le mie forze, ma era pesante e le gambe lo reggevano appena. Le mie gambe poi non riuscirono a sostenere il peso di entrambi. Feci pochi passi in direzione del divano, ma a un certo punto lui inciampò nel tappeto e mi trascinò con sé sul pavimento. Evitammo solo per pochi centimetri il tavolino di cristallo.

«Tutto bene?» domandai mettendomi seduta.

Lui non rispose subito, cominciò a fissarmi come se mi vedesse per la prima volta. Allungò la mano tremante verso di me e fece scivolare un dito sulla mia guancia. «Niente più va bene…» biascicò, «niente, niente, niente, da quando ti ho lasciata. Stasera mi sono maledetto per ciò che ho fatto a te e ai bambini. La nostra famiglia era la cosa più bella che avevo, ma ho preferito altro. Sono un idiota.» E sbuffò.

Il suo viso si accostò al mio. Con una mossa decisa mi allontanai. Era ubriaco, l’alcool parlava per lui.

Il tappetto aveva attutito la caduta, ma non il freddo che saliva dal pavimento. Gattonai fino al pannello radiante, che simulava la fiamma di un camino acceso, e lo avviai. Dopo un po’ smisi di tremare.

«Non muoverti, vado a preparare un buon caffè, torno subito», ribadii, e feci per alzarmi.

«Vieni qui…» esordì lui. Con una mossa decisa, abbrancò il mio braccio e mi tirò a sé.

«Sei ubriaco, la cena di stasera sarà andata alla grande.» Scossi il capo e provai a divincolarmi.

«Non ho cenato. Ho lasciato Daniela, definitivamente. Le ho detto che la mia famiglia mi manca, che la rivoglio. Che desidero mia moglie e i miei figli vicino e che sono disposto a tutto pur di riconquistarvi. La bottiglia di porto è venuta dopo, quando ho pensato che non mi avresti voluto… che non mi avresti dato un’altra possibilità.»

Ci guardammo per qualche meraviglioso istante. Alcool, o non alcool, quelle parole venivano dal cuore, erano sincere e il suo sguardo lo confermava: i suoi occhi brillavano della stessa luce della quale mi ero innamorata.

Le nostre labbra si cercarono, si sfiorarono appena. Il bacio arrivò dopo qualche indecisione, e fu sublime. Il cuore cominciò a bussare come la prima volta nella quale ci eravamo baciati. In un solo istante la rabbia, il rancore, furono annientati da un amore mai sopito, che era restato lì, nascosto in un cantuccio, in attesa di tempi migliori.

«Vado a preparare il caffè…» biascicai. Lui allentò la presa e mi permise di alzarmi. Non so perché, ma il mio sguardo scivolò sull’albero di Natale. Ai suoi piedi non c’erano i regali che Vittorio sosteneva di aver portato ai bambini. «Ahm… dove sono i regali per Giada e Luca?»

«I bambini non mi hanno chiesto giocattoli», fece lui.

«Sul serio?» esclamai incredula. «A me hanno chiesto una valanga di doni!»

Lui aggiunse: «Non mi hanno chiesto cose, volevano solo che tornassi a casa».

Sorrisi, non aggiunsi altro. I miei piccoli angeli mi avevano regalato ciò che ormai davo per perduto, una famiglia unita: la felicità. Perciò, a chi dice che gli angeli non esistono, dico di venire a conoscere Giada e Luca, loro, il primo miracolo, lo hanno già fatto.



At Last

 (One shot di 1690 parole, pubblicata per la prima volta nel febbraio 2019)


Brutto e antipatico, ecco l’impressione che conservava di lui chiunque avesse la dannata sventura di averci a che fare, e fu esattamente la stessa che assaporai io, dopo il primo giorno di lavoro. Difficilmente arrivavo a odiare le persone, ma per lui avevo fatto un’eccezione. Quando gli allungavo la posta, il nostro caro dirigente, dopo avermi squadrato con una faccia schifata e perplessa, partoriva a stento un “grazie, Matilda”. Osservava tutti con la stessa espressione, non mi ci volle molto a notarlo. Era un tipo metodico, il nostro capo, di quelli con la puzza sotto il naso. Stava sempre chiuso nel suo ufficio come un paguro dentro la conchiglia e ne usciva solo per urlare contro i sottoposti, come se lui fosse l’unico in agenzia a saper lavorare. In realtà era bravo solo a sbraitare e a criticare l’operato altrui, quello che in realtà riempiva giorno dopo giorno le sue tasche e quelle dei titolari. Arturo Tempesta era il suo nome, ma per me era: il flagello. Era un rospo di quasi settant’anni con un naso adunco che svettava come un guerriero sopra una barba irsuta e brizzolata. La tempesta la portava nel cognome, e il nome era come filo spinato, pieno di erre e di ti: Arrrttturrro. Bah, pesonaccia dalla quale tenersi alla larga. E io ci stavo volentieri alla larga da lui. Io, donna solare un po’ appannata, ottimista per quanto potesse esserlo una che le aveva buscate per buona parte della vita e che aveva superato da qualche mese i sessanta. Lavoravo nell’agenzia finanziaria diretta dal flagello da ormai tre anni. Lui dirigente, io un’impiegatuccia qualsiasi che quando andava bene smistava la posta. Lui vedovo da quasi un anno, io vedova per scelta. Ebbene sì, per scelta. Lo avevo ammazzato io mio marito, avevo manomesso l’impianto frenante dell’auto dopo giorni e giorni di corsi intensivi su Youtube. Tutti avevano creduto alla disgrazia – persino il commissario ci aveva creduto – avevo recitato la parte della mogliettina affranta, a quanto pare bene. Forse anche il mio aspetto mi aveva aiutata: bassina, spalle piccole e fianchi tondi tondi. Anche gli occhiali che portavo erano tondi e il viso non stonava con tutto il resto. Finalmente era finita, dopo anni di botte avevo trovato la pace. Anche lui, mio marito, l’aveva trovata, ma fra le lamiere contorte dell’auto. I soccorsi avevano recuperato il suo cadavere senza mani: erano saltate via, tranciate nella caduta, disperse chissà dove fra i cespugli del dirupo. Quelle mani non avrebbero mai più fatto del male a nessuna.

Quella sera ero ansiosa che scoccasse l’ora X. Il mio programma per la vigilia di Natale era già stilato e approvato: sarei passata al fast food sotto casa, avrei preso il pollo e le patatine, una cola, avrei infilato il mio pigiamone caldo caldo, e giù sul divano a divorare film su Netflix, di quelli natalizi che rifulgono di buoni sentimenti e nei quali l’amore e la giustizia trionfano sempre – cosa che di rado capita nella vita. Tutto sommato non potevo lagnarmi, in un certo senso, la mia giustizia, a sessant’anni suonati, l’avevo avuta – ehm, me l’ero procurata – mi ero liberata del mio aguzzino, un lavoro che mi dava da vivere ce l’avevo, anche se non era il massimo cui aspirare, e avevo trovato una casa, piccolina, compatta, con qualche piantina e un gatto affettuosissimo e di buon appetito.

Il flagello quella sera, come ogni sera della vigilia, aveva chiamato i subalterni nel suo ufficio, uno a uno, per porgere gli auguri e per offrire a ciascuno il consueto vassoietto di biscotti allo zenzero: una quindicina di omini della fortuna – erano auguri formali, dovuti. Ogni anno, noi dipendenti, ci aspettavamo che quel dono diventasse più sostanzioso, dati i profitti in crescita, ma a ogni vigilia perfino i biscotti rimpicciolivano.

Quella sera Arturo mi aveva ricevuta per ultima nel suo ufficio, il nostro piano era ormai deserto, non vedevo l’ora di tornarmene a casa. Abbottonai il cappotto, afferrai la borsa, avvolsi la sciarpa intorno al collo e raggiunsi l’ascensore a passo svelto. Guardai il pulsante di chiamata rosso come un semaforo e sbuffai: di certo avrei dovuto aspettare, il numeretto luminoso indicava il ventunesimo piano, io ero al sesto, chissà quanti avrebbero fermato la cabina ai piani intermedi. Invece quella sera l’ascensore mi stupì, si presentò in un lampo, ed era incredibilmente vuoto.

Quando il trillo dell’ascensore annunciò la discesa, un braccio teso s’infilò fra le porte in chiusura e le costrinse a ripensarci. Era lui: il flagello.

Una volta dentro, sbuffò. «Oh, perfetto, Matilda, mi hai risparmiato un’attesa estenuante! Stranissimo trovarlo vuoto, non trovi?» E abbracciò la sua borsa di cuoio.

Annuii. «Già. Stasera molti avranno staccato prima, il traffico sarà allucinante. Poi c’è chi compra i regali all’ultimo momento…» Blah, odiavo intrecciare con lui anche solo una parvenza di conversazione, odiavo far finta che mi piacesse parlarci insieme. Non sopportavo la sua voce, forse perché quando s’arrabbiava mi ricordava tanto mio marito. Mi detestavo quando mi comportavo come dovevo e non come avrei voluto. All’improvviso pensai che quello poteva essere il momento giusto per dirgli senza peli sulla lingua ciò che pensavo di lui, del suo modo di fare sgarbato, inappropriato, detestabile; senz’altro sarei tornata a casa con dieci chili di meno, e avrei sorriso pensando alla soddisfazione che dopo tre anni mi ero tolta. Avremmo discusso di certo, la gente si irrita maledettamente quando gli sputi in faccia la verità, non è in grado di vederla, di reggerla. Ma poi pensai al flagello, a come si sarebbe sentito la sera della vigilia di Natale. E lo risparmiai.

Lui continuò imperterrito. «Matilda, se posso permettermi, con chi passerà la serata, parenti forse?»

Che cacchio gli importava dei miei programmi? Gli avevo mai chiesto niente della sua vita?!

«Ehm, no, niente parenti…» risposi contando le parole. «Guarderò la tv e coccolerò il gatto.»

«Un buon programma… Io, ehm, anch’io starò a casa, da solo. Mia moglie solo l’anno scorso preparava la cena della vigilia, sembra ieri.» Le labbra sparirono, ingoiate dalla barba.

Forse per la prima volta, quella volta, incrociai il suo sguardo. Attraverso le lenti mi sembrò di scorgere un luccichio. Ma era commozione quella? Allora nel suo petto batteva qualcosa. Allora era umano!

Lui abbassò la testa e la rialzò subito dopo. Mi fissò ancora. E poi ancora.

Sì, aveva gli occhi lucidi e una lacrima era sfuggita al suo controllo. Era autentica commozione.

Arturo continuò: «Ehm, so di suo marito, mm, dev’essere stata dura… Noi due abbiamo dovuto digerire lo stesso dolore e nessuno può capire cosa sia stato, se non chi l’ha provato.»

“Dolore?” pensai, “chiamala rinascita, piuttosto.” Un mezzo sorriso, che voleva essere formalmente solidale, affiorò sulle mie labbra. Non avevo mai parlato così a lungo con quell’uomo, per quanto mi riguardava gli avevo dato già troppo. Da adesso in poi avrei risposto con dei monosillabi.

Il visore dell’ascensore segnò lo zero, si spense, avrebbe dovuto riaccendersi subito dopo indicando il piano ’interrato. Fu allora che uno scossone, seguito da uno stridio pauroso, fermò di colpo la corsa della cabina.

I miei occhi si spalancarono. «Mio Dio, cosa è stato?»

Un pensiero atroce mi fermò il respiro. Quella era iella, iella allo stato puro. Se avessi passato anche solo un quarto d’ora della vigilia di Natale insieme col flagello, avrei pregiudicato il resto della serata. Cominciai a sudare, erano sudori freddi. Non ero claustrofobica, ma quello era il momento adatto per cominciare a esserlo, altrimenti i soccorsi sarebbero arrivati il giorno dopo.

Cominciai a premere insistentemente il pulsante dell’interrato.

L’ascensore sussultò, non ripartì.

Il quadrato luminoso che avevamo sulla testa fece l’occhiolino – cominciava a piacergli la nostra situazione infame – quindi si spense del tutto. Al buio e col flagello, che avevo fatto di male?! Uccidere un marito violento non poteva rientrare nel computo dei peccati gravi, avevo reso giustizia a me stessa. E se, in quell’ascensore, trovandomi alle strette, fossi stata costretta a uccidere per la seconda volta?

Ingoiai un groppo di saliva.

Il flagello premette l’allarme due volte, poi la terza, ma il portiere doveva essere andato via. Lo premette ancora, e ancora, infine partì una voce registrata che c’invitava a conservare la calma e c’informava che l’allarme, in automatico, era stato inoltrato a un centro di emergenza.

Dopo tre ore eravamo ancora chiusi lì dentro. Faceva freddo. Le luci dei cellulari, inesorabilmente senza campo, illuminavano la cabina a intervalli brevi – non potevamo permetterci di sprecare batterie e decidemmo di accenderli a turno, per lo stretto indispensabile.

Guardai l’ora sul cellulare, mancava un quarto alla mezzanotte.

«Mi piace il tuo viso», esordì Arturo a un certo punto. «Non so, sarà la luce del tuo display ma… hai gli occhi sognanti.» Un’espressione strana aleggiava sulla faccia. Un’espressione languida?!

Ma quando gli avevo permesso di farmi dei complimenti? La nostra conversazione era stata formale fino a quel momento, cos’era cambiato in tre ore d’inscatolamento e buio quasi assoluto?

Mio marito non faceva complimenti, almeno non a me. Accidenti, non credevo fossero così gratificanti.

Arturo mi strappò un sorriso, piccolo, e un po’ forse arrossii, ma la penombra nascose l’imbarazzo.

A un tratto, sorprendentemente, sfacciatamente, Arturo mi porse l’auricolare del suo telefono e, con un mezzo sorriso, sussurrò: «È scoccata la mezzanotte, buon Natale, Matilda… Non mi dica che ha promesso a qualcun altro questo ballo?!» Ammiccò e allungò il palmo spalancato verso di me.

Non ricordavo quanto fosse piacevole sentirsi corteggiate, poiché in quel momento Arturo mi stava chiaramente corteggiando. La sua galanteria, imprevedibile, inimmaginabile, cancellò tutto il brutto che pensavo di lui e mi regalò il secondo sorriso della serata.

La mia mano, dopo più di qualche indecisione, scivolò nella sua.

Il mio corpo, lentamente e con un certo imbarazzo, si accostò al suo. Appoggiai, con tatto, il capo sul suo petto.

Il suo abbraccio, dolce e gentile, mi accolse e mi mostrò una tenerezza che forse non avevo mai conosciuto.

Cominciammo a ballare, nell’angusta cabina di un freddo e tetro ascensore. Arturo mi cullava fra le braccia e io seguivo i suoi movimenti. Le note erano quelle della mia canzone preferita e forse anche la sua: At last, di Etta James… finalmente era Natale.


Commenti

Post più popolari